Distribuito da Netflix a partire dal 13 luglio, il film narra di un giovane uomo d’affari di Chicago, Will, che si reca nella città natale della fidanzata, Seattle, per chiedere ai futuri suoceri la mano della loro figlia, ora incinta. L’incontro sarà decisamente negativo, e quando d’improvviso accade qualcosa di terribile a Chicago, Will e il futuro suocero, nonostante i pessimi rapporti, decidono di mettersi in viaggio per cercare ed aiutare la giovane donna. Lungo il viaggio avranno modo di conoscersi meglio, tra misteriosi cataclismi e tempeste, e incontreranno persone che per aggrapparsi alla vita perderanno rapidamente la propria umanità.

Nato dalla mitologica “black list” hollywoodiana, quella delle sceneggiature messe in naftalina e sotto osservazione, questo thriller apocalittico è stato accolto da critica e pubblico molto negativamente e complice, forse, una bassa aspettativa, in realtà io sono riuscito ad apprezzarne alcune componenti.

Il vero punto di forza di questo road-movie apocalittico, a mio avviso, è un’evidentissima metafora sulla paternità, ed ha davvero poco senso interrogarsi sul perché il film (non) finisca in un certo modo, anche perché, a dire il vero, non si capisce neanche il perché o il come inizi questa sorta di apocalisse. Per la pellicola non è necessario narrare le cause scatenanti o se, e come finisce, perché la catastrofe, in realtà, è solo un pretesto per mettere in scena altri valori. Quelli della paternità, come accennato prima, che è il vero fulcro del film, ed è lì che sceneggiatore, regista e produttori vogliono portarci, o analizzare le conseguenze che un disastro di tale portata genera sulla civiltà, in una lotta alla sopravvivenza senza esclusioni di colpi. Si può discutere sulla non originalità dell’idea, ormai abbastanza abusata (vedi The “Walking Dead” ad esempio o il recentissimo “Cargo”), ma l’idea è oltre, il messaggio è decisamente altro.

Se da un lato un alone di mistero avvolge l’autore della sceneggiatura, il canadese Brooks McLaren, e quindi possono essere giustificate le feroci critiche ad alcune sue scelte decisamente non brillanti, per non dire banali di sceneggiatura, dall’altro lato non si può non apprezzare tutto il reparto tecnico del film. Ottimo infatti il regista Rosenthal, autore di una regia piacevole, mai stancante, senza errori di sorta, ancor meglio il musicista Atli Orvarsson, autore già apprezzato in pellicole importanti, grazie alla sua collaborazione con il maestro Hans Zimmer, che con le sue musiche accompagna il viaggio trasmettendoci il giusto pathos. E che dire della fotografia? Peter Flickenberg è la vera forza del film, gli scenari apocalittici sono splendidi, le riprese notturne cupe e affascinanti.

Spicca poi nel cast la presenza del pluripremiato Forest Whitaker che anche in questa pellicola riesce ad essere molto convincente grazie ad una performance di ex marine severo e burbero, di buonissimo livello. Accanto a lui non trasmette nulla il giovane Theo James, bocciato direi, al contrario della neozelandese Kerry Bishè che mostra talento e che avrebbe meritato una caratterizzazione senza dubbio più impegnativa, meno frettolosa (qui ricadiamo nelle colpe dello sceneggiatore).

Ritengo che seppur non sia un capolavoro, seppur non sia memorabile, e con tutti i difetti di sceneggiatura che possa avere, questo “How It Ends” sia comunque superiore ad altre pellicole del catalogo Netflix e a molte di quelle che escono al cinema, e merita di sicuro di essere visto.

VOTO 6

Paolo Condurro

 

La fine – Recensione film
Tag: