Un padre infetto da un virus zombie si fa strada nel deserto australiano con la figlioletta sulle spalle, alla ricerca di qualcuno che possa aiutarlo a rallentare il corso del contagio e salvare la figlia.

Nato come Zombie-movie, e tratto dal più riuscito cortometraggio finalista del Tropfest Short Film Festival, questo film targato Netflix ha molto poco di horror. L’idea di trattare la problematica del contagio da zombie evitando il più possibile gli ormai abusati luoghi comuni dell’horror, quali splatter e gore, era tanto interessante quanto però mal riuscita. Il film ha il merito di farsi guardare, ma senza mai suscitare alcuna vera emozione, lineare nella forma e nella sostanza, ma anche ambiguo nel suo apparire, quasi fosse incerto se comunicarci un’origine cinematografica o televisiva.

Cargo mette da parte la spettacolarizzazione dell’apocalisse zombie per concentrarsi invece su quelli che sono gli aspetti più prettamente psicologici di una catastrofe di tal portata. Assisteremo così alle difficili scelte che Andy sarà costretto a compiere per amore della propria pargoletta, ma anche alle mutazioni morali delle persone, risultato di un mondo ormai avverso in cui solo i più forti sopravvivono, spesso a scapito degli altri.

Nel film scritto e diretto da Ben Howling e Yolanda Ramke ci sono ottimi propositi ma con risultati discutibili, resi tali soprattutto da una narrazione piatta e segnata da forzature di trama notevoli, come ad esempio la scena del contagio di Andy. Ma già dall’inizio Il film perde di credibilità nella scena dell’incidente principale della trama, che viene provocato da un atto troppo imprudente e incosciente per essere credibile per lo spettatore. Il lato umano che Cargo vorrebbe rendere prevalente non riesce di fatto a coinvolgere veramente lo spettatore, nonostante la messa in scena di momenti toccanti, il film non fa presa e finisce quindi inevitabilmente col deludere.

I registi poi tendono nel corso del film ad abusare di alcuni temi, riproponendoli a più riprese con poche variazioni, questo non fa che aumentare il distacco di chi lo guarda là dove dovrebbe esserci invece un minimo di trasporto emotivo, una lacrimuccia, un brividino.

Neanche il cast è all’altezza delle aspettative, su tutti Martin Freeman dal quale i registi non riescono ad estrarre nuovi risvolti dalla sua capacità recitativa, facendo risultare il suo Andy molto simile al dottor Watson della serie Sherlock e mostrandosi decisamente sottotono al pubblico.

Si salva la fotografia, ben usata per le scene diurne ed eccezionale nei tramonti di un’Australia rudimentale, desolante, selvaggia dove le tonalità calde delle aride lande desolate vengono di tanto in tanto sfumate da qualche tocco di verde. Non basta però un buon reparto tecnico a salvare un film che non lascia il segno.

Lo sforzo di basare la storia sulla ricerca di fiducia nel prossimo, su di un padre che cerca disperatamente qualcuno cui affidare quanto di più caro, cosi come  sul tema dell’amore per la famiglia visto come ultimo brandello di umanità dopo aver perso tutto, risulta alla fine abbastanza vano. Il risultato finale non convince del tutto.

VOTO 5

Paolo Condurro

Cargo – Recensione film
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