Un imprecisato futuro, un mondo diviso in due: una parte formata dall’élite, ricca e florida, che governa l’altra, arretrata, povera e dall’aspetto di una enorme favela.

Chi è esperto di fantascienza riconoscerà questo come uno dei più sfruttati tòpoi di genere, premessa immancabile di molti prodotti, non ultimo il celebratissimo Hunger Games. La distopia post-apocalittica è sfruttata come partenza anche in 3%, che proprio da Hunger Games sembra aver attinto altri spunti per il dispiegamento della storia. Una selezione che vede impegnati senza appello giovani uomini e donne (nel loro 20° anno di età), pronti a superare prove sempre più complesse per giungere infine a far parte della ristretta cerchia di prescelti (il 3% del titolo).

Di Hunger Games manca tuttavia il sangue dovuto allo scontro fisico tra i contendenti, vero focus dell’Arena: nel Processo, questo il nome della selezione di 3%, contano anche altri fattori rispetto alla forza bruta, tanto che anche un ragazzo in carrozzina può aspirare ad un posto.

La storia si focalizza su un gruppo ristretto di giovani, che si troveranno a far squadra o a fronteggiarsi quando le prove lo richiederanno. Uno degli aspetti più intriganti di 3% è la tipologia di test che i concorrenti dovranno superare: appaiono come uno studiato compendio di trial clinici estratti da manuali di psicologia e sociologia e prevedono momenti che metteranno in dubbio l’identità dei partecipanti, i loro stessi obiettivi e motivazioni nel partecipare al Processo. Attraverso la continua negoziazione tra le inevitabili richieste delle prove ed i rapporti tra i vari membri del gruppo, in continuo divenire, assisteremo ad uno sviluppo via via sempre più coinvolgente, fino alla risoluzione finale, decisamente poco pronosticabile.

Le vicende alternano momenti di autentica ed inquietante claustrofobia a scene più ariose (gran parte della storia si sviluppa nell’impianto che ospita il Processo), specialmente nei flashback che, mai in modo invasivo, raccontano i trascorsi dei concorrenti e quello che tenteranno, con alterne fortune, di nascondere al Processo stesso.

Man mano che la storia va avanti il destino dei protagonisti vi starà sempre più a cuore: merito di una sceneggiatura validissima e di attori, pur sconosciuti, capaci di interpretazioni coinvolgenti. 3% è la prima produzione di Netflix Brasile, e l’atmosfera del grande paese sudamericano si percepisce in ogni dove: dalla rappresentazione dell’immensa favela da cui provengono i concorrenti, al racconto delle disuguaglianze sociali che possono nascere anche in simili povertà. Il riscatto attraverso il superamento del Processo è ambito, desiderato ed anche oggetto di religione, ad indicare l’adesione e la sudditanza del popolo rispetto alla cerchia governativa, che dal lontano “Maralto” osserva freddamente gli eventi attendendone i risultati.

Laterale, ma cruciale nella comprensione della narrazione, è la storia di Ezequiel, governatore del Processo, stretto tra la necessità di assicurare un valido 3% all’Offshore da cui dipende e la sua personale vicenda che lo rende insospettabilmente “umano”, a dispetto del ruolo assunto.

3% mostra a volte la corda nell’essere evidentemente realizzato con pochi mezzi economici, tradendo la sua natura low-budget nella prevalenza di scene d’interni e molto ravvicinate; tuttavia riesce ad appassionare e stimolare una visione compulsiva con i pregi descritti finora. Manca la lingua italiana (disponibili solo i sottotitoli), ma questo è un ottimo pretesto per fare l’orecchio al portoghese brasiliano, il cui uso nella serie permette a chi già lo conosce di comprendere sottigliezze nei rapporti tra i protagonisti. Un racconto young adult che solo in apparenza è simile a tanti altri, di cui Netflix ha già confermato una seconda stagione in uscita a fine 2017.

Valerio Mocata

3%: gli Hunger Games di Netflix
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